Nel 1973 il matematico James Lighthill pubblicò un rapporto per il British Science Research Council assicurando che l’Intelligenza Artificiale non sarebbe mai arrivata oltre un livello da “dilettante nei giochi, come gli scacchi”, incapace di risolvere ogni problema pratico. Lo scetticismo che ne seguì portò il Congresso americano a tagliare i finanziamenti ai laboratori informatici e il Parlamento inglese a contenerli in tre atenei. Il pioniere dell’AI Edward Feigenbaum lamentava: “In un giorno, la politica distrusse il nostro Eden con perfidia, ricevevamo anche due milioni di dollari al mese (15 al valore attuale), chiusero i rubinetti”.
Fu la decisione del governo giapponese, nei primi anni ’80 del secolo scorso, di investire nell’Intelligenza Artificiale con il progetto “Computer di Quinta Generazione”, a svegliare la presidenza di Ronald Reagan e i fondi militari del Pentagono (con l’agenzia Arpa, madrina già di internet) per AI. Dopo il sostegno della Difesa USA, toccò alle grandi aziende dell’elettronica e dei consumi, che avevano lanciato il boom di Tokyo, scommettere sui sistemi intelligenti e la paura del sorpasso riaccese l’interesse americano. Oggi la sfida è tra Stati Uniti e Cina, con Nicolas Chaillan, primo capo del software al Pentagono, a temere “Fra quindici anni non avremo più speranza di vincere la corsa all’AI con Pechino, e vedremo se a deciderlo sarà la guerra”.
La storia della tecnologia, disciplina ignorata dalle università, in Europa e in America, ci racconta come le conquiste dell’AI e i suoi periodi di “inverno”, raffreddamento delle ricerche per penuria di soldi, sono dipese sempre dalla narrativa che i governi se ne sono fatti, a volte troppo illudendosi, altre reagendo per paura dei rivali. È bene dunque che il governo italiano del premier Mario Draghi, intento ad allocare i fondi del Pnrr su tecnologie, e-learning, AI, sviluppo digitale del paese, superi le secche del XX secolo, distribuendo le risorse in modo razionale e avviando le nuove generazioni ai saperi del futuro.
Venerdì a Torino, uno studente ha chiesto alla Ministra per l’Università Maria Cristina Messa e al ministro per l’Innovazione Vittorio Colao chiarimenti sul destino di I3A, laboratorio di AI nella capitale piemontese, e alla risposta che conferma gli impegni presi, ma parla anche di altri centri nazionali, son sorte preoccupazioni, proteste, lamentele. Il presidente dell’Unione Industriale torinese, Giorgio Marsiaj, si è detto “sorpreso e sconcertato”, altri han parlato di “doccia fredda” finché, opportunamente, la ministra ha chiarito i dubbi, da una parte i fondi, 1,61 miliardi di euro, del Pnrr per partenariati con Università, centri di ricerca e imprese, che verranno assegnati in modo competitivo, dall’altra la fondazione di un Centro italiano di ricerca per l’automotive a Torino.
“Ciò che stiamo cercando di costruire è un paese sempre più competitivo e che possa competere a livello internazionale in diversi settori, stimolando la creazione di reti e supportando grandi collaborazioni, per uno sviluppo sostenibile e stabile pensando alla Next Generation” conclude Messa e il tono è quello giusto.
Ogni campanilismo, ogni Strapaese sulla strategia chiave del domani, l’Intelligenza Artificiale, come fosse la Sagra della Ciriola e della Porchetta, umilierebbe l’Italia, sprecando l’occasione storica dei fondi europei. L’Università di Georgetown stima che la Cina avrà, entro il 2030, un’industria AI da 150 miliardi di dollari, avendo già registrato, negli ultimi 10 anni, 390.000 brevetti nel settore. Il centro studi IDC calcola che, nel 2024, gli investimenti globali nell’AI arriveranno a 500 miliardi di dollari, con gli esperti di PwC a ribadire che, da qui alla fine del decennio, AI contribuirà 16.000 miliardi alle economie. In Cina l’impatto sul prodotto lordo nazionale sarà del 26,1%, negli USA e Canada del 14,5%, nel Nord Europa del 9,9%, nel Sud Europa dell’11,5%.
Bastano al lettore queste cifre, colossali, per comprendere posta in gioco e ritardi europei. Quando parlano del tema gli scienziati informatici, come il professor Giuseppe Italiano di Luiss, insistono sull’importanza del network, la rete di laboratori, aziende, capitale privato, investimenti pubblici, università, capace di affrontare insieme la cultura AI. Gruppi italiani come Leonardo, per esempio, lavorano già in questa direzione, ma serve accelerare e razionalizzare i percorsi.
A Torino, Milano, Roma e in altri centri, anche al Sud vedi il laboratorio Apple di Napoli fondato da Giorgio Ventre, non mancano esperienze di eccellenza, serve ora “metterle in rete”, collegare ricerche e mercato, reclutare studentesse in una disciplina fin qui troppo maschile (ne ha parlato la ministra Bonetti, una matematica), per ottenere la scala necessaria a fronteggiare le superpotenze. La guerra di municipi ci relegherebbe indietro, forzando i nostri migliori talenti a emigrare in paesi capaci di pensare da comunità, non villaggio irto di barriere. Perché Lighthill aveva torto, l’AI vola e ora lo sappiamo.
Articolo di Gianni Riotta, direttore del Luiss Data Lab, coordinatore di IDMO ed editorialista de La Repubblica.