La disinformazione esiste da quando esistono le notizie, ma l’ondata di fake news e propaganda a cui siamo sottoposti oggi rende sempre più necessario comprenderla e agire per contrastarla. È il compito di IDMO, l’Italian Digital Media Observatory, che il 4 aprile ha organizzato un convegno sul tema all’Università Luiss Guido Carli in occasione dell’International Fact checking Day. All’incontro hanno preso parte tutti i partner coinvolti nell’Osservatorio (tra questi Tim, Rai, Gedi, T6 Ecosystem), ognuno dei quali ha affrontato il problema da un punto di vista particolare.
Gli attori che si trovano in prima linea contro la disinformazione sono le testate tradizionali che hanno il compito di certificare con la loro autorevolezza l’affidabilità delle notizie che riportano. «Viviamo in un mondo con un eccesso di informazioni», ha affermato il direttore di HuffPost Mattia Feltri, sollecitato dalle domande dei giornalisti praticanti del Master in Giornalismo e Comunicazione Multimediale della Luiss, «ma meglio un eccesso che un difetto come quello che hanno in Russia». La diffusione di molteplici fonti e strumenti di informazione è positiva, ma questo rende cruciale l’opera di selezione e controllo delle notizie. Un controllo che per il direttore Feltri ognuno deve effettuare sui propri contenuti, mentre dedicandosi al debunking di tutte le notizie in circolazione «si corre il rischio di ergersi a giudici del lavoro altrui».
Il principale strumento di fact checking a disposizione dei giornalisti è «la loro professionalità», ha spiegato Edoardo Buffoni, direttore della redazione news di Radio Capital. Una frase che evidenzia il ruolo centrale che il fattore umano ancora ricopre nel lavoro giornalistico. Nella selezione delle fonti bisogna infatti cercare sempre di avere voci del campo, che abbiano meno condizionamenti nel riportare un fatto. Ciò non evita del tutto gli errori che sono insiti nella scelta. «Il giornalista sceglie in continuazione e per questo sbaglia più degli altri», ha aggiunto Agnese Pini, direttrice del quotidiano La Nazione, «ma le grandi testate possono ridurre questo margine di errore grazie al lavoro di squadra della redazione». Una redazione che deve evolversi insieme agli strumenti tecnici, anche per contrastare la disinformazione. Proprio come ha fatto quella di Repubblica, rappresentata dal vice-direttore Francesco Bei, che ha un team di «nativi digitali capaci di valutare rapidamente da dove provengano video e foto e determinare se siano state manipolati».
Il debunking dei singoli fatti però non basta. Le fake news puntano sulle emozioni e costruiscono delle narrazioni complesse che intrappolano l’utente. Per questo a chi fruisce l’informazione vanno forniti gli strumenti «per una lettura meno passiva dei fatti», attraverso articoli in grado di spiegare il contesto storico e le ragioni profonde di un avvenimento. Una strategia particolarmente utile nella drammatica situazione che stiamo vivendo col conflitto in Ucraina. Malgrado si tratti di una guerra seguita per larghi tratti in tempo reale attraverso i social le drammatiche scoperte delle fosse comuni di Bucha ci dimostrano «che la propaganda segue le stesse modalità dai tempi delle guerre puniche e per scoprire la verità su quanto sta accadendo servirà tempo», ha concluso la direttrice Pini.
Il ruolo delle istituzioni e delle piattaforme
La professionalità di chi fa informazione è l’elemento cardine anche secondo il senatore Giuseppe Moles, sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’Editoria e all’Informazione. «Gli sforzi dei giornalisti contro la disinformazione vanno sostenuti da campagne di sensibilizzazione istituzionale», ha dichiarato il Senatore. «Un governo democratico non può imporre norme che arrivino alla censura, per questo è fondamentale la partecipazione di tutte le parti in causa». Una raccomandazione ineludibile nel momento in cui gli strumenti tecnologici evolvono più rapidamente di qualsiasi norma. In questo contesto «il primo strumento a disposizione degli utenti contro la disinformazione è Google», come ha affermato Diego Ciulli, capo della sezione Affari Governativi del colosso americano. La tecnologia mette a disposizione allo stesso tempo sia gli strumenti per creare notizie false in maniera sempre più realistica, sia quelli per smascherare tali manipolazioni. Un motore di ricerca ha dunque l’enorme responsabilità di ordinare i risultati che appaiono, badando di «garantire il pluralismo, ma facendo in modo che i siti delle testate autorevoli non vengano considerati sullo stesso piano di blog amatoriali e siti di propaganda». Una sfida resa più ardua quando i disinformatori hanno a disposizione enormi quantità di fondi statali con l’obiettivo di arrivare in cima ai risultati di Google.
Le pillole contro la disinformazione della RAI
«Lo ha detto la televisione». Fino a vent’anni fa era il certificato di affidabilità di una notizia, ma con il moltiplicarsi delle fonti di informazione e la facilità di accesso garantita dalla rete nessun mezzo può più vantare un ruolo di riferimento. In questo contesto «per il servizio pubblico combattere la disinformazione è un dovere», ha ricordato Caterina Stagno, responsabile del Nucleo Inclusione Digitale di RAI per il sociale. Lo strumento messo a punto sono le “Pillole contro la Disinformazione”, una serie di brevi spot da mandare in onda su Raiplay e sul palinsesto televisivo con l’obiettivo di far capire quanto la disinformazione sia capace di entrare nelle nostre vite quotidiane e fornire gli strumenti per riconoscerla e combatterla.
Uno sforzo a cui partecipa anche TIM con la propria Data Room, che studia attraverso i dati i meccanismi con cui le fake news diventano virali. Dalle ricerche effettuate è emerso che i giovani sono molto più proattivi nello smentire le notizie false, ma per raggiungere un pubblico più ampio attraverso i social è fondamentale stringere “un’alleanza” con gli influencer più seguiti per contrastare il rimbalzo della disinformazione, che spesso viene ricondivisa da più account e con più follower rispetto agli articoli fact checking. In questo campo quello che le aziende e i giornalisti devono fare è educare il pubblico al dato, ha spiegato Mariano Tredicini, Social Platforms & Analysis di TIM, cercando di rendere più facilmente fruibili dei concetti che la mente umana non digerisce volentieri. Questo anche attraverso una più larga campagna di alfabetizzazione digitale.
I Fact Checkers
Se tutti dobbiamo partecipare alla lotta contro la disinformazione, è però necessario che in prima linea ci siano dei professionisti che si dedichino quotidianamente all’attività di debunking. È quello che cerca di fare Pagella Politica, nata nel 2012 sul modello del sito americano Politifact, che valuta la veridicità o meno delle affermazioni dei politici. La differenza fondamentale portata da questi siti specializzati è stato il controllo ex post delle notizie già pubblicate, diverso dal fact checking tradizionale che le redazioni operano sulle loro notizie prima di pubblicarle fin dagli inizi del Novecento.
«Il problema», ha spiegato il direttore Giovanni Zagni, è che, in maniera simile ai dati, anche nei confronti del fact checking va superata una resistenza psicologica «che porta gli esseri umani a cercare solo le notizie che confermano le proprie convinzioni e a rifiutare quelle che le negano». Il fact checking è utile nel momento in cui si tratta di smentire singoli fatti, ma molto meno quando deve cambiare la mentalità. Un passo in questo senso prova a farlo anche NewsGuard, un sito di fact checking che invece di esaminare le singole notizie valuta l’affidabilità complessiva di un sito in base a nove criteri giornalistici: in primo luogo l’affidabilità storica delle sue pubblicazioni, la trasparenza relativa ai propri finanziamenti e ai propri autori. Al termine della valutazione il sito riceve un punteggio da 0 e 100 e se supera la soglia di 60 viene ritenuto affidabile, così da dare agli utenti un criterio per scegliere dove informarsi, dissipando la confusione che i disinformatori puntano a creare.
In prima linea contro la propaganda russa
Con l’invasione russa dell’Ucraina tutto il mondo si è dunque accorto di cosa significhi avere a che fare con una macchina della disinformazione ben finanziata e organizzata, al punto che gli Ucraini che hanno parenti in Russia si sono visti contrappore alle loro testimonianze dal campo dei bombardamenti russi narrazioni che ricalcavano passo per passo la propaganda del Cremlino.
«Quando ci abbiamo iniziato a lavorare sembrava un problema oscuro e lontano e non si capivano le ragioni di concentrarsi su questo argomento», ha ricordato Gianni Riotta, direttore del Master in Giornalismo e coordinatore dell’Osservatorio. «Va messo in chiaro che la disinformazione non è libertà di pensiero e che il fact checking non equivale alla censura», ha detto aprendo l’ultimo panel della giornata i cui ospiti sono ben consci dei pericoli posti dalla propaganda russa. Il primo a intervenire è stato infatti l’analista del Ministero della Difesa lituano Kostantinas Reckovas, che si è trovato in prima persona a contrastare le false informazioni diffuse nel suo Stato secondo cui la Lituania sarebbe stato una nazione fallita che doveva soltanto abbandonare la UE e la Nato e tornare con la Russia.
«L’obiettivo del Cremlino è quello di minare la fiducia tra gli alleati», gli ha fatto eco Michal Gierasimiuk, membro del team di comunicazione strategica del Ministero della Difesa Polacco, ricordando come agenti russi fossero stati in grado di diffondere un falso documento con la firma di un generale polacco che incitava i suoi uomini ad attaccare «gli occupanti americani».
Esempi di questo tipo dimostrano che «nessun paese può contrastare da solo una propaganda ben organizzata, perciò l’unica strada è quella di un approccio multilaterale che coinvolga il maggior numero di stati», ha affermato il maggiore dell’esercito italiano Sonny Malospiriti. Ma questa collaborazione tra stati sarebbe inutile senza l’elemento fondamentale sul quale tutti i partecipanti al panel concordano: la necessità di educare il singolo cittadino a reagire alla disinformazione. È questo il punto centrale dei corsi di Maia Klaassen, docente di scienze sociali all’università di Tartu, in Estonia. L’approccio della professoressa punta sulla più alta diffusione possibile della Media Literacy e sul motivare il singolo ad andare oltre «lo scrollare passivo» che porta a ignorare le bufale, perché anche il mancato contrasto contribuisce a diffondere la disinformazione. Occorre dunque sensibilizzare al tema non solo i giornalisti, ma anche il pubblico più ampio per creare un ambiente in cui le fake news non riescano ad attecchire. «Se perdiamo la lotta dell’informazione oggi», ha concluso il dottor Reckovas, «presto ci troveremo ad affrontare i carri armati nemici».
Articolo di Silvano D’Angelo studente del Master in Giornalismo e Comunicazione Multimediale dell’Università Luiss Guido Carli.