Ricostruire la fiducia degli italiani nei media tradizionali. Questo l’obiettivo illustrato da Gianni Riotta e Nando Pagnoncelli durante il webinar «Trust in Media», organizzato per la presentazione del nuovo report di Ipsos per IDMO, l’osservatorio nazionale contro la disinformazione in rete.
«L’aspetto della creazione del consenso politico tramite la diffusione delle fake news è l’elemento più preoccupante, al di là dei lati economici. Così si altera il gioco democratico, facendo passare false credenze tramite le fake news», dichiara Pagnoncelli.
La cosa più difficile è trovare una definizione condivisa del termine “notizia falsa. Un conto è un fatto totalmente inventato. Diversa è l’informazione basata sull’esagerazione o sulla tendenziosità di un aspetto. «Su questo è un po’ difficile intervenire da parte del legislatore, dei mezzi di informazione o di noi stessi come cittadini», spiega il presidente di Ipsos. Combattere la disinformazione in assenza di una definizione univoca rende più difficile contrastare il fenomeno? Nando Pagnoncelli è deciso nell’individuare a chi spetta elaborarla: «Credo che da questo punto di vista ci sia l’esigenza che il legislatore si esprima attraverso una definizione corretta di disinformazione, allo stesso tempo è difficile perché ne esistono vari tipi».
«Il vero problema è districarsi nell’insieme di notizie che dilatano la portata di alcuni aspetti, anche non del tutto falsi», continua Pagnoncelli. L’amministratore delegato di Ipsos riflette sulla difficoltà, che viene sottolineata anche dai dati dell’indagine, di distinguere la disinformazione quando i confini si fanno più sfumati.
Nel report viene sottolineato, inoltre, come ci sia una buona percentuale di intervistati che diventano a loro volta degli amplificatori della notizia falsa nel momento in cui la condividono. Soggetti che, seppure in buona fede, contribuiscono al dibattito innescato da una notizia falsa e ad aumentare il rumore di fondo. Anche questo risulta essere un aspetto da non sottovalutare.
Molto spesso gli stessi mezzi di informazione appaiono poco consapevoli di questo tipo di responsabilità. «I cittadini hanno il dovere di informarsi, ma anche il diritto di avere un’informazione veritiera», continuano Riotta e Pagnoncelli.
Una parte del Report si concentra su questo tema. Agli intervistati è stata posta la domanda «È giusto che in un programma televisivo vengano invitate persone che non condividono opinioni condivise dalla comunità scientifica?» 1 italiano su 4 non vuole che opinionisti fuori dalle posizioni prevalenti in campo scientifico sia invitato in tv; 2 su 4 pensa sia giusto che i cittadini debbano sentire tutte le opinioni per essere correttamente informati.
Tra i dati più interessanti risulta che circa il 71 per cento di persone, non segue profili che sui social si occupano di debunking. Cosa si può fare per rendere più appetibile questo modo di fare fact-checking? Secondo Nando Pagnoncelli è necessario partire da un’ampia operazione di comunicazione per aumentare il livello di conoscenza da parte dei cittadini di questa possibilità e fornire i siti di debunking di una sorta di certificazione, un “bollino” che ne confermi l’affidabilità.
«L’errore più grave che noi, come addetti ai lavori, possiamo commettere è elevarci su di un pulpito e pensare di predicare alle masse», continua Gianni Riotta. Secondo il coordinatore di IDMO la necessità è quella di approcciarsi alla lotta alla disinformazione attraverso un percorso di dibattito e convinzione, portato avanti con umiltà e capacità di ascolto. «Questo viene fuori in modo chiarissimo nei risultati dell’indagine condotta con Ipsos. Non esiste solo il bianco o solo il nero, coloro che portano avanti il dibattito libero contro quelli che credono alla disinformazione. Nel mezzo c’è un gradiente di colori. Possiamo ancora recuperare quelli che sono più vicini a noi e colpire il nocciolo duro della disinformazione».
“Trasparenza” è la parola chiave nella battaglia contro le fake news, l’arma più potente in mano ai professionisti dell’informazione. «Le agenzie di controllo dovrebbero capire che la disinformazione sui social è più veloce di loro. Dovrebbero applicare le regole sulla trasparenza dei bilanci dell’editoria a chi fa informazione in rete: non sappiamo chi c’è dietro», concludono i due esperti.
Articolo di Beatrice Offidani, studentessa del Master in Giornalismo e Comunicazione Multimediale dell’Università Luiss Guido Carli.